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Hotel Scandinavia

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Hotel Scandinavia

Posti letto: 70

Il fascino discreto e l’atmosfera decadente di uno dei palazzi più antichi di Venezia. Nel cuore della città, ad un passo da piazza San Marco e dal Ponte di Rialto, con una splendida vista sul Campo Santa Maria Formosa. L’esperienza emozionate di un soggiorno in un’atmosfera tipicamente veneziana. La famiglia Tinacci, ad oggi proprietaria del palazzo adibito ad Hotel, ha acquisito lo storico immobile dal precedente possessore ereditandone lo spirito di accoglienza e relazione con i paesi Scandinavi, motivo fin dall’antichità di scambi commerciali cui lo stabile era adibito, vedasi la Lega Anseatica. Un soggiorno nell’Hotel Scandinavia è un’esperienza unica ed emozionante che vi consentirà d’immergervi in un’epoca ormai lontana, rivivendo gli antichi fasti della Venezia del Settecento. Ogni camera dell’Hotel è stata pensata per riprodurre questa magica atmosfera.

L’Hotel Scandinavia è dotato di 33 camere ampie e luminose. Tutte le stanze sono arredate con cura, con mobili d’epoca e sontuosi lampadari in vetro di Murano e sono dotate di ogni genere di comfort come TV, frigobar, telefono diretto, climatizzatore. Sono presenti inoltre 2 appartamenti adiacenti l’Hotel. L’edificio si erge su fondamenta prima Romane e poi Bizantine, costituite da pali immersi nella fanghiglia lagunare, sormontate in epoche diverse da mura che costituiscono il caratteristico palazzo veneziano. La struttura centrale dell’edificio che si pone in fronte al campo Santa Maria Formosa è il corpo originario del palazzo, cui sono state aggiunte altre porzioni immobiliari adiacenti nel corso degli ultimi anni. Ed è qui che durante un’ampia ristrutturazione sono stati rinvenuti antichi carteggi, custoditi all’interno delle travature della Residenza, ove si faceva menzione all’acquisto di monete d’argento presso la Zecca Veneziana, finalizzate per l’appunto al commercio. La famiglia Tinacci, mantenendo l’arredamento classico Settecentesco, ha cercato di conservare l’aspetto originario del Palazzo, arricchendolo in seguito con una collezione di dipinti di arte moderna posti ai piani alti dell’edificio.

La Storia dell’Hotel Scandinavia
Il Sestiere di Castello si trova stretto tra la laguna nei versanti orientatati verso Nord ed Est e fra l’area della marciana ed il sestiere di Cannaregio a Sud; rappresenta il sestiere archeologicamente più interessante e più ricco di informazioni storiche e geo-archeologiche. La fondazione dell’insediamento di San Pietro di Castello implica un arco di tempo plurisecolare su tre distinte aree di colonizzazione: l’insula saneti Petri citra pontem, il confinium castellanum ultra pontem, e la contrada saneti Petri de Castello. La prima corrisponde all’isola di Olivolo, ove era presente un comando Bizantino esarcale (Castrum Helibolis) sulla via navigabile endo-litoranea di età imperiale che collegava Ravenna con Aquileia: ivi, recenti scavi realizzati in prossimità della chiesa di San Pietro, hanno rilevato un insediamento del VII Secolo con resti di costruzioni lignee. Nell’Isola sono attestati: il quartiere episcopale, con la chiesa cattedrale ed il palatium, sorti probabilmente sulle fondazioni dell’antico castellum, la contigua chiesa battesimale di S. Giovanni, identificabile con la Chiesa dei SS. Sergio e Bacco, le abitazioni dell’arcidiacono e dei canonici, e altre case destinate a mansionarii, notarii e servi (barcaioli, ortolani), oltre a una grande vigna. All’inizio del ‘300 – grazie anche a numerose acquisizioni immobiliari duecentesche – un prezioso catastico redatto dal vescovo Ramperto Polo (1303-1309) documenta appezzamenti ed edifici nella parte sudoccidentale dell’Isola concessi a livello, tutto il costruito appare assai semplificato, quasi sempre in plano ed in materiale ligneo; gran parte dell’area rivela un’originaria proprietà episcopale. Informazioni ricavabili dagli atti di concessione agli insediamenti ecclesiastici di San Daniele (1138), di Santa Maria in Jerusalem (delle Vergini, 1239), di Sant’Elena (1175 e1233) e di Sant’Andrea de Littore (della Certosa, 1199) e da una sentenza dei giudici del Piovego, contribuiscono a configurare una proprietà arcaica vastissima in terre ed acque dell’episcopato castellano attorno ad Olivolo. La seconda area investe l’Isola di campo Ruga, fra il Canale di Castello, il ridellus o rivus Sanctus Danielis (attuale-rio de San Daniel), il rivus Sanctus Petri o de Castello (rio de Sant’Anna) e il rivus di Santa Maria delle Vergini. Fino all’inizio del Trecento, l’insediamento fu chiaramente semiagrario, comprendendo un complesso di pecie de terra, vacua o parzialmente utilizzata per costruzioni abitative soprattutto lignee: il citato catastico segnala 15 domus lignee e 5 domus de muro. A questa data, peraltro, il confinium castellanum ultra pontem non apparteneva più totalmente alla curia: un discreto appezzamento, nell’ angolo di nordovest, è del Monastero di San Daniele, che possiede anche alcune casette nel contesto della parcellizzazione episcopale, così come il Monastero di Santa Maria delle Vergini; e anche l’angolo sud-ovest e l’angolo nord-est risultano posseduti da privati, o acquisiti dal comune. Il regime dei fondi episcopali era quello, antichissimo, del livello, il cui rinnovo era obbligato ogni 29 anni, che concedeva al conduttore la facoltà di vendere il terreno, previo diritto di prelazione della curia, la quale nel catastico Polo risultava rigorosamente interessata alla notifica cui in tal caso era obbligato il livellario. L’onere del livello era in genere assai lieve: annualmente, una o due bonas gallinas, o uno o due paria bonorum capponorum, ma non mancavano i casi in cui l’obbligo era quello di solvere duas fialasboni vini o cinque libre (o un metro) boni et puri olei, senza che, apparentemente, le dimensioni delle pecie de terra, sempre esattamente misurate, giustificassero la considerevole differenza. La misurazione dei fondi, offerta dal Catastico, consente di stabilire con sufficiente precisione (insieme con la considerazione dei livelli attuali del terreno, abbastanza alti lungo il Riello, e assai bassi verso il canale: cm 90,80 o meno) che l’Isola era, nel ‘300, assai più stretta dell’attuale, e che, nei Secoli XII e XIII, a causa del più alto livello del mare, poterono sussistere condizioni di disagio o impedimento per la residenza e le coltivazioni. La lottizzazione documentata non può dunque essere molto anteriore al Duecento. Essa obbedì a due funzioni viarie specifiche: quella della via che collegava il confinium mediante un pons longus sul Canale de Castello con il Campus Orti Sancti Petri (1352) – il quale forse sostituì un altro ponte più a sud, attestato nel 1298 -, e con un altro ponte sul Rio de Sancta Anna verso la più vasta contrada, e quella dipendente dalla suddetta che consentiva di raggiungere con altri ponti il monastero di San Daniele e quello delle Vergini. L’asse centrale era via pubblica, e si risolveva in parte in un campus vinee (l’attuale Campo Ruga), proprietà originaria episcopale, pure divenuto all’inizio del Secolo XIV, almeno in parte, luogo pubblico tale da consentire introitus et exitus a frontisti e passanti.

La terza area di insediamento, la Contrada (la stessa denominazione ne identifica la posteriorità rispetto al confinium), composta sui due lati del Rivus Sancti Petri che corse fino a San Biagio lungo un percorso di circa cinquecentosettanta metri, con una morfologia urbanistica articolata a pettine – nella quale i singoli frontisti dovettero essere tenuti a garantire il proprio tratto di via comunis (le attuali fondamenta) lungo il rivo -, rappresentò il luogo residenziale pregiato e aperto verso la città dell’intero complesso castellano, caratterizzato da una vita di relazione più dinamica rispetto ai due precedenti, anche per il vicino sopravveniente ampliamento dell’arsenale. La contrada implica, necessariamente, un intervento progettuale innovante, con due fronti di terminationes tracciate prima a 30, poi a 40, infine a 50 piedi di distanza l’una dall’altra, mentre lo scavo del rivo procedeva verso occidente fino a raggiungere, all’inizio della grande curva del Canale Maius, quella palude che negli anni Trenta del Trecento veniva detta puncta vehelme. Le calli, perpendicolari al rivo, sono quasi sempre attribuibili alle fasi più mature dell’urbanizzazione, quando la conquista progressiva del territorio retrostante, sia verso nord (fino al rivus Tane scavato dal comune a partire dalla fine degli anni Venti), sia verso sud (fino al Canale o fino a nuovi terreni di bonifica della palude), stimolata dalla creazione delle prime rughe d’affitto, richiese una frequente viabilità di penetrazione. Nell’avanzato Trecento, del resto, iniziava una fase di trasformazione territoriale del tutto nuova, sotto l’impulso di iniziative di bonificazione imponenti della palude meridionale, autorizzate dal governo con grazie a intraprendenti cittadini, quali quelle di Marco Catapan e del Magister Gualterius Cerusico (1318 e 1334). Questo ampliamento territoriale assai considerevole, nel quale trovò rapidamente sede il Monastero di Sant’Antonio di Vienna (1346), cui altri si aggiunsero nel Cinquecento (San Nicolò di Bari e San Giuseppe), si collocò, seguendo la curva del Canale, nella parte orientale della Contrada, mentre la parte occidentale, lontana sia dal centro castellano sia da quello marciano, ebbe necessariamente minore sviluppo dimensionale, fino alla puncta vehelme, e rimase soprattutto consegnata a ortaglie e attività cantieristiche e artigianali, privilegianti il mantenimento di spazi liberi privati. La documentazione sussistente delle pubbliche concessioni e degli atti privati relativi alle imprese citate autorizza peraltro molti dubbi, e non consente sicura collocazione sul terreno, se non per aspetti parziali, quali la definizione delle pertinenze del Monastero di Sant’Antonio, o l’identificazione della via publica larga dieci piedi, richiesta dal comune lungo il Canale, fino al ponte di collegamento verso nord con la calle del monastero di San Domenico. Se si confrontano le grazie di cui furono beneficiari Valterio e Catapan con la minuziosa rappresentazione dell’area del de’ Barbari ci si accorge che le acque attribuite al primo sarebbero state ben più ampie dei terreni – ancora vacui – delineati dalla veduta del 1500, che il rivo e la strada previsti fra la sua area e quella di Catapan non erano stati realizzati, e che non sussiste nemmeno compatibilità fra le varie concessioni areali del primo e dei secondi, le quali si susseguirono per decenni, ingenerando anche confuse operazioni di vendita, riacquisto, permuta fra privati. Di più, non è stata finora possibile la localizzazione dello stesso ospedale di San Giovanni per vecchi marinai, che fu, indubbiamente, costruito dal Valterio, ma scompare ben presto dalle fonti, e avrebbe dovuto costituire un lato della grande area assegnata al cerusico per il suo progettato orto botanico. Si può ritenere pertanto che la suddivisione delle aque effettuata dal Valterio nel suo testamento (1343) fra molti parenti, la quale rivela una rigorosa concezione geometrica di zonizzazione riferita al terreno, non abbia avuto pratica attuazione di bonifica, come sembra implicare del resto la nuova ridotta concessione del 1358 al suo nipote, il cirologus Luciano Martella, sostitutiva di quella del defunto. Se queste iniziative rimasero per buona parte incompiute, si iniziava negli stessi anni, nel grande invaso del Lacus Sancti Danielis – ceduto dal vescovo al monastero, e utilizzato per Secoli dall’uno e dall’altro come aquimolo, infine faticosamente acquisito dal Comune nel 1325 -, l’opera colossale di ampliamento dell’arsenale, che implicava a nord del rio de la Tana la lunga fabbrica delle corderie, e che consentì il trasferimento entro le nuove mura dei depositi e delle lavorazioni della canapa, già esistenti a San Geremia. In questo quadro complessivo di notevole anche se povero sviluppo ebbero un ruolo anche le fondazioni ecclesiastiche e assistenziali, numerose nella parrocchia di San Pietro più che in qualsiasi altra regione urbana. Se l’insula Sanctus Petri rimaneva fisicamente marginale rispetto alla crescita della contrada, e parimenti periferici restavano San Daniele concesso nel 1138 all’Abate Cistercense di Fruttuaria e arricchito nel 1220 del grande Lago a Molendina – e Santa Maria in Jerusalem – succeduta a una chiesa più antica intitolata ai Santissimi Giovanni e Paolo -, nuove istituzioni trovarono sede lungo l’asse abitativo del rivus Sanctus Petri: nel 1242 un frate eremitano di Fano acquistava alcuni terreni per un monastero da intitolarsi a Santa Maria di Nazareth, che avrebbe operato per un cinquantennio, fino al trasferimento, con il titolo di Santo Stefano, su aree confinanti fra le Parrocchie di San Vidal e Sant’Angelo: al suo posto, nel 1297, si costituiva un monastero femminile dedicato a Sant’Anna, che si allargò con nuovi acquisti di proprietà contigue. Nel 1291 il Vescovo Bartolomeo I Querini ordinava per testamento la fondazione di un ospedale intitolato al suo santo omonimo, che risulta già esistente con relativa chiesa nel 1303; e nel 1312 il doge Marino Zorzi lasciava analoghe disposizioni per la fondazione di un monastero di domenicani, con annesso ospedale: il primo, con il titolo appunto di San Domenico, era operante con una chiesa di transizione romanico-gotica già nel 1317, e il secondo, grazie a un acquisto del 1343, risulta costituito accanto al porticale della chiesa già nel 1347, come hospitale domicellarum; il territorio del monastero fu poi progressivamente accresciuto verso sud, con acquisti e grazie, fino a incontrare un rivulo che lo avrebbe separato dal citato monastero di Sant’Antonio, lungo il tratto occidentale dell’attuale rio de Sant’Isepo. Tutte le chiese monastiche citate sono scomparse. Né si deve dimenticare l’importante ospedale dei Santissimi Pietro e Paolo, di fondazione assai antica, che con l’attigua hospitaleto da cha Avançio era situato al centro della contrada, sull’angolo con il rio de la Tana, e fu posto sotto la protezione amministrativa dogale nel 1368 su richiesta del suo priore Marco de Bonaccursio; sociologicamente appare negli atti rilevante per quantità di citazioni una popolazione modesta e applicata a vari mestieri, dagli strazaroli alle venderigole, dai mulinarii ai pancogoli, ai cortelarii e ai marangoni, ma non mancano le famiglie eminenti (Bonzi, Venier, Nani, Zorzi, Zusto, Soranzo, Acotanto, Pisani, Zen, Alberegno, Sanudo, Diedo, Trevisan, Signolo, Belegno): emergenti su tutti i Correr, anche con un primicerio di San Marco divenuto poi patriarca di Costantinopoli. Non molto significativo appare al riguardo l’elenco dei contribuenti dell’estimo del 1379, nel quale si afferma solitario il patrimonio di un Betino, e appaiono notevoli i valori delle case dei monasteri delle Vergini e di S. Nicolò di Lido.

Parrocchia di Santa Maria Formosa
Si dice che la Beata Vergine sia apparsa al Vescovo San Magno comandandogli di erigerle una chiesa dove avesse veduto fermarsi una bianca nuvoletta. Ciò venne eseguito, e la nuova chiesa, fabbricata con la cooperazione della famiglia Tribuno, dedicata alla Purificazione della Beata Vergine, e volgarmente detta di Santa Maria Formosa in memoria della vaga forma in cui la madre di Dio apparve al Santo. Questa chiesa, dichiarata subito parrocchiale, venne rifatta quando non passati ancora due Secoli dalla sua fondazione, per opera dei figli d’un Marino Patrizio nell’864. Si rifece un’altra volta dopo l’incendio del 1105. Si rialzò dalle fondamenta nel 1492 su disegno di Moro Lombardo. Nel 1541 se ne edificò la facciata verso il Ponte, e nel 1604 quella verso il Campo per cura della famiglia Cappello, e sullo stile del Sansovino, stile che venne eseguito anche nella rinnovazione dell’interno, fattasi nel 1689 a spese di Torrino Tonini, ricco mercadante. La chiesa di Santa Maria Formosa ebbe un altro restauro interno nel 1842. Quanto alla parrocchia, essa nel 1810 subì una rinnovazione né suoi confini: perdette alcune frazioni che si aggregarono alle due Parrocchie di San Zaccaria e dei Santissimi Giovanni e Paolo, e ne acquistò alcune altre, appartenenti a Santa Marina e San Giuliano, con intero il circondario di San Leone. In Parrocchia di Santa Maria Formosa si ritrasse a menar vita meretricia Veronica Franco. In un opuscolo rarissimo, impresso nel Secolo XVI col titolo: «Questo si è il Catalogo de tutte le principal, et più honorate cortigiane di Venetia», di cui possedeva il Cicogna una copia a penna, ora nel civico Museo, si legge: «Vero. Franca a Santa Mar. Formo. Pieza so mare. Scudi 2». Il Campo di Santa Maria Formosa è caratterizzato dalla presenza di vari palazzi: al Ponte di Ruga Giuffa, a destra, si scorge il palazzo Malipiero, poi Trevisan, architettato nel Secolo XVI da Sante Lombardo. Nel centro del campo, presso l’imboccatura della «Calle degli Orbi», il palazzo archiacuto Vitturi. Quindi, passata la «Calle Lunga», gli edifici, pure archiacuti, dei Donato, sopra la porta di uno dei quali hai una testa di marmo con lo stemma della famiglia. Qui abitava quell’Ermolao Donato, uno dei capi del Consiglio dei X, che, «…Mentre il 5 novembre 1450, a 4 ore di notte, ritornava a casa, riportò, presso la sua porta, per mano d’uno sconosciuto, varie ferite, le quali, dopo due giorni, lo trassero alla tomba». Fu perciò catturato, posto a tortura, e, benché nulla confessasse, relegato in Candia Jacopo, figlio del doge Francesco Foscari, come sospetto d’aver ordinato l’assassinio. Chiude finalmente il «Campo di Santa Maria Formosa», dal lato di settentrione, il palazzo Ruzzini, quindi Priuli, disegnato da Bartolomeo Monopola.

Le fonti documentali e di archivio
È stata effettuata una ricerca archivistica, consultando l’edito a disposizione; quanto ritrovato per il periodo Medievale ci parla di un’area occupata da proprietas delle quali però non disponiamo di documentazione d’archivio e di una calle, realizzata solo a partire dal 1300, come evidenziato dal Dorigo nella sua Venezia Romanica (2003). L’osservazione della pianta prospettica del de’ Barbari (1500) e di quelle del Seicento (Merian e Merlo), ha reso possibile l’individuazione del palazzo affacciato su Campo Santa Maria Formosa e delle sue pertinenze su Calla Longa. Si nota un palazzo a due piani con una serie di edifici più bassi posteriormente, che risulta oggi sopraelevato da restauri moderni. Scavi effettuati al suo interno alcuni anni fa hanno messo in luce le murature originarie di epoca Bizantina. La famiglia che abitava il complesso già all’epoca, era una famiglia di commercianti, conosciuta con il nome di Trevisan, che tenne commerci stabili con le regioni Scandinave a partire dalla prima metà del Quattrocento. Già nella seconda metà del Duecento, infatti, nuclei organizzati di mercanti della città lagunare, rappresentavano gruppi commerciali orientati verso il Mar Baltico ed il Mare del Nord, con la necessità di mantenere le posizioni acquisite. Il commercio prevedeva trasporti marittimi di vari generi, dalle spezie che Venezia si procurava dall’Oriente, a stoffe preziose, aringhe e pellami conciati che i paesi scandinavi producevano con abilità. Lo scambio si rafforzò sino al 1450 circa, grazie alla formazione della Lega Anseatica che proteggeva gli scambi nell’area del nord Europa. L’edificio si inserisce in un’area estremamente attiva e nevralgica per le attività commerciali: a partire dal Quattrocento rimase un punto di riferimento in Campo Santa Maria Formosa, modificando parzialmente il suo aspetto all’interno ed all’esterno. In epoca Ottocentesca l’immobile, affacciato su Campo Santa Maria Formosa, fu suddiviso in un notevole numero di parcellizzazioni interne. All’interno della struttura è visibile questa messa in opera contemporanea, mentre le strutture su Calle longa appaiono pressoché invariate. Gli scavi archeologici hanno messo in luce il terreno su cui si sono improntate le strutture residenziali visibili nella pianta prospettica del de’ Barbari (1500). Le fonti documentarie descrivono il palazzo, specificando che fosse di proprietà della famiglia Trevisan. Nel XIV Secolo il complesso appariva parcellizzato, ma l’edificio originale è di epoca tardo Trecentesca, come dimostra una fondazione muraria con mattoni a coltello legati da malta di calce che si trova ad una quota di +20 cm sul livello medio mare e presenta andamento nord-ovest sud-est; da analisi archeologiche e dal loro raffronto con quelle archivistiche, sono riferibili alle strutture residenziali citate dal Dorigo nel suo “Venezia Romanica”. Un complesso murario, riconducibile ad una fase Quattrocentesca, è attualmente conservato al piano terra; la parete presenta una struttura simile ad un arco, realizzata per sigillare e dare maggior robustezza ad un’apertura pre-esistente; questa operazione avvenne nel Cinquecento, durante il secondo ampliamento dell’edificio, documentabile sulla base delle mappe del de’ Barbari; grazie a questa disposizione di mattoni, si ottenne un rafforzamento delle strutture murarie e la chiusura definitiva della porta. La parete si presenta come un complesso sistema di laterizi e malta, rimaneggiata in epoca contemporanea; analizzando la forma e le dimensioni dei mattoni, si può dedurre che alcuni di essi siano di epoca Quattrocentesca, altri di un periodo più recente, ed altri ancora più antichi, provenienti, probabilmente, da una struttura antecedente; l’apertura segnerebbe, così, i limiti perimetrali dell’edificio nel Quattrocento, che si basava su un complesso più antico. Grazie a questo elemento possiamo confermare che il palazzo sia di origine tardo Trecentesca e che la sua estensione fosse minore rispetto a quello attualmente visibile. Il palazzo attuale ebbe un primo ampliamento nel Quattrocento, quando fu realizzato il secondo piano ed accresciuto nelle dimensioni, per vivere il suo apice nel Cinquecento con un secondo ciclo di modifiche della struttura ed una serie da parcellizzazioni. Un terzo, importante, ampliamento fu realizzato nell’Ottocento, con l’innalzamento di un ulteriore piano ed alcune modifiche strutturali presenti ancora attualmente.

Conclusioni
La pianta prospettica Cinquecentesca di Jacopo de’ Barbari ci illustra la distribuzione volumetrica del complesso immobiliare oggi occupato dall’hotel Scandinavia, che già all’epoca ospitava una famiglia di commercianti. Il palazzo descritto risulta a due piani con una serie di edifici più bassi posteriormente. Afferibile a questa fase dell’edificio è da ritenersi la muratura ortogonale con andamento nord sud, e riferibile ad una suddivisione interna dello stabile. L’edificio originale, di epoca tardo Trecentesca e tutte le sue fasi di modificazione e parcellizzazione avvenute in epoca moderna e contemporanea risultano impostate su un terreno naturale a matrice argillosa, la cui interfaccia superiore è posta a +32 cm sul livello medio mare. L’edificio presenta delle strutture certamente Quattrocentesche e delle evidenze murarie tardo Trecentesche, portate in luce dagli scavi archeologici, effettuati nel 2017, al piano terra. I raffronti fra documentazione archeologica e fonti archivistiche consentono, così, di confermare l’antichità di questo edificio, che può essere considerato un esempio di palazzo storico della città di Venezia.

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