Villa La Rotonda è l’esito felice dell’incontro tra il genio di Andrea Palladio, architetto all’apice della carriera, e il nobile vicentino Paolo Almerico (1514-1589), uomo colto, ambizioso e altero. Questi era un ecclesiastico che, dopo l’incarico a Roma come referendario apostolico dei papi Pio IV e Pio V, si ritirò a vita privata nella sua città natale: nel 1565 affidò a Palladio il progetto per la sua nuova dimora sopra un colle alle porte di Vicenza, un rifugio bucolico dove trascorrere gli ultimi anni della propria vita lontano dall’ostilità dell’aristocrazia cittadina, ma allo stesso tempo un luogo di rappresentanza in posizione ben visibile.
«Nell’interno questo a tutto rigore si potrebbe dire abitabile, non però fatto per essere abitato. La sala è delle più belle proporzioni, come parimenti le stanze; ma il tutto basterebbe a stento per residenza estiva di una famiglia distinta»: le parole di Goethe in visita alla Rotonda nel 1786 sottolineano l’eccentricità di questo progetto architettonico rispetto alle altre ville palladiane. Gli spazi interni, infatti, sono organizzati in funzione di una persona sola, così come i rapporti geometrici e i riferimenti simbolici sono una continua celebrazione del suo committente, Paolo Almerico: la Rotonda fonde in sé le funzioni agricole di una villa rurale veneta e la dimensione sacrale di un tempio pagano (come ricordano le colonne dei quattro pronai) o cristiano (simboleggiato dalla volta a cupola) al cui centro si trova l’uomo del Cinquecento. Una villa-tempio, dunque, dove l’Antichità incontra le aspirazioni del nobile rinascimentale e dove, come un microcosmo, si manifestano le forze cosmiche e naturali.
La Storia di Villa La Rotonda
Né Palladio né Almerico videro la Rotonda completata: alla morte dell’architetto nel 1580 subentrò nella direzione del cantiere Vincenzo Scamozzi (1548-1616), suo discepolo e progettista raffinato. Sua è l’aggiunta della lunga barchessa lungo il viale di accesso alla villa e il completamento della cupola, non più semisferica come nel progetto palladiano, bensì con una volta ribassata con oculo centrale ispirata al Pantheon di Roma.
Alla morte di Paolo Almerico nel 1589 la villa passò al figlio naturale Virginio, che la tenne solo per due anni prima di cederla ai fratelli Odorico e Mario Capra: nel 1605 si conclusero i lavori di costruzione.
La famiglia Capra, stirpe di nobili vicentini, conservò la villa suburbana fino agli inizi dell’Ottocento e sotto la sua proprietà si susseguirono diversi interventi e trasformazioni in linea con i cambiamenti del gusto: le decorazioni ad affresco della cupola e delle sale d’angolo nel tardo Cinquecento, la realizzazione degli stucchi e la collocazione delle sculture sugli acroteri tra la fine del secolo e i primi anni del Seicento, la costruzione della Cappella su disegno di Girolamo Albanese attorno al 1650 (oggi nel parco della vicina Villa Valmarana ai Nani), l’intervento del pittore Louis Dorigny sulle pareti della sala centrale in occasione del matrimonio tra Marzio e Cecilia Capra nei primi anni del Settecento, fino ai più complessi interventi strutturali di Francesco Muttoni tra il 1725 e il 1740. Sua è la suddivisione del piano del sottotetto, che nel progetto palladiano era concepito come spazio aperto con funzioni di granaio.
Dal 1818 Villa Almerico Capra subì diversi cambi di proprietà, venne danneggiata durante gli assalti austriaci del 1848 a Vicenza e più volte restaurata, fino all’acquisto da parte della famiglia Valmarana nel 1912.
Entrando al piano nobile della Rotonda non si può non notare il tripudio di affreschi e stucchi: l’interno della villa si presenta molto diverso da quello che doveva aver immaginato Palladio, poiché ogni generazione successiva di proprietari apportò nuove decorazioni in linea con la moda della propria epoca.
All’esterno, già prima del 1570 erano state poste le statue sugli speroni delle scale, ad opera dello scultore vicentino Lorenzo Rubini; solo quelle del pronao sud-ovest sono state sostituite a causa dei danni subiti durante l’assedio austriaco del 1848. Nei primi anni del Seicento, invece, furono collocate le sculture di divinità maschili e femminili sugli acroteri della bottega di Giambattista Albanese, mentre settecentesche sono quelle che spiccano sulla barchessa scamozziana e lungo il muro di cinta che costeggia il viale d’accesso a nord-ovest, per alcune delle quali si può pensare alla bottega di Orazio Marinali, così come settecentesco è il gruppo con Ercole che uccide il leone Nemeo nel ninfeo del giardino.
Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo vennero affrescati i soffitti delle quattro sale d’angolo e dei camerini del piano nobile, oltre alla volta a cupola: si tratta di allegorie della religione e delle virtù dipinte da Alessandro Maganza a ridosso del 1600, un pittore di chiara formazione veronesiana. Solo la sala d’angolo a est è precedente, attribuibile alla mano del veronese Anselmo Canera.
Gli stucchi appartengono principalmente a due periodi distinti: del tardo XVI secolo sono le ricche e fantasiose cappe dei camini, gli stucchi dei soffitti (con interventi di Ottavio Ridolfi, Ruggero Bascapè, Domenico Fontana e forse Alessandro Vittoria) e della cupola (realizzati forse da Agostino Rubini); mentre all’inizio del XVIII secolo appartengono i sontuosi sovrapporta degli artisti provenienti dalla Valsolda, così lontani dall’ordine palladiano.
L’intervento dei plasticatori valsoldiani rientra nella grande campagna decorativa voluta per il matrimonio di Marzio e Cecilia Capra, che ha visto anche la decorazione ad affresco di Louis Dorigny, pittore francese di fama che lavorò soprattutto nella Repubblica di Venezia, sulle pareti della stanza rotonda centrale: qui otto gigantesche divinità olimpiche si ergono all’interno di un’architettura tromp-l’oeil. Il pavimento di questa sala è completato al centro da un mascherone a bassorilievo dal volto grottesco.